Burnout e Fatica da Compassione in Medicina Veterinaria

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«Ho scelto di fare il veterinario e lo scrittore. Il veterinario perché chi può esprimere la sofferenza solo con gli occhi non può e non deve essere ignorato,  anche se ha una coda, le ali o le pinne. Lo scrittore perché rimanga qualcosa di ciò che ho fatto a favore dei deboli e degli indifesi,  siano essi bambini o gatti, vecchi o scimmie, poveri o cani.» 

(Oscar Grazioli)

 

Negli ultimi anni le normative per la salute e la sicurezza sul luogo di lavoro hanno preso in grande considerazione i cosiddetti “rischi psicosociali”, quali lo stress lavoro-correlato, il burnout e la fatica da compassione. Tali fenomeni influiscono negativamente sul benessere della persona e sulla qualità del lavoro svolto e rappresentano un rischio tanto per l’organizzazione quanto per l’individuo. La medicina veterinaria è una delle professioni più vulnerabili, pertanto è importante che vengano attuate iniziative di prevenzione e che i professionisti imparino a prendersi cura sé.

 

Che cos’è il burnout?

Il burnout è la conseguenza della cronicizzazione di elevati livelli di stress lavoro-correlato, dovuto alle dinamiche relazionali che la persona si trova a gestire sul lavoro, alla sensazione di sovraccarico e alla difficoltà a conciliare la vita professionale con quella privata. Ne deriva un profondo senso di frustrazione per non riuscire a svolgere efficacemente in proprio lavoro e a rispondere in maniera adeguata a tutte le richieste.

Le ricerche su questo tema si sono a lungo concentrate su coloro che svolgono le cosiddette “professioni di aiuto”, quali i medici, gli infermieri e gli assistenti sociali: in questi ambiti la relazione con l’altro risulta infatti  centrale e comporta un inevitabile coinvolgimento emotivo.

Solo recentemente la letteratura scientifica ha iniziato ad interessarsi ai medici veterinari, in virtù dei profondi cambiamenti culturali e sociali che vedono le persone sempre più legate agli animali dal punto di vista affettivo. È stato quindi osservato come soprattutto l’ambito degli animali da compagnia esponga i professionisti a rischi psicosociali comuni alle altre professioni di aiuto.

 

Quali sono i fattori di rischio e le conseguenze?

Fra i fattori di rischio del burnout più frequentemente evidenziati vi sono le richieste a livello intellettivo, tra cui la necessità di prendere iniziative e di assumersi responsabilità, ma soprattutto le richieste a livello emotivo, quali:

  • l’interazione con persone che pongono continue richieste, cariche di aspettative;
  • l’esposizione a situazioni emotivamente coinvolgenti;
  • la necessità di regolare e gestire l’espressione delle proprie emozioni per rispondere alle aspettative del ruolo che si ricopre.

Progressivamente, il  professionista sente di avere sempre meno energie, fatica a gestire e a scaricare lo stress e arriva così a “bruciarsi” (traduzione letterale del temine “burnout”), sperimentando una sensazione di logorio fisico e psicologico e di perdita di energia.

Il medico veterinario si sente deluso dal divario tra quelle che erano le proprie aspirazioni professionali e la realtà lavorativa quotidiana, percepita come frustrante. Sviluppa pertanto un atteggiamento cinico, pessimista e distaccato nei confronti del lavoro e degli altri. Anche le prestazioni sul lavoro peggiorano, aumentano gli errori e le assenze e la persona si sente sempre meno realizzata e coinvolta nella professione.

Se non trattata, questa condizione può compromettere significativamente il benessere psicofisico, determinando ansia, depressione e disturbi psicosomatici e, nei casi più gravi, può portare all’abuso di sostanze o al suicidio. Anche i rapporti interpersonali risultano compromessi e  la qualità del lavoro si riduce, così come la soddisfazione dei clienti.

 

Che cos’è la “fatica da compassione”?

La fatica da compassione si sovrappone al burnout per la sensazione di “sovraccarico” che deriva dalle continue richieste a cui si è chiamati a rispondere sul lavoro, ma dipende in modo specifico dall’esposizione continua alla sofferenza e dal prendersi cura di persone e animali sofferenti, traumatizzati e in stato di bisogno.

In tutti noi, a meno che non siano presenti gravi psicopatologie, la sofferenza di un altro individuo determina l’attivazione dell’empatia, che motiva il comportamento di aiuto. L’empatia è tanto maggiore quanto più intensa è la sofferenza dell’altro e può determinare uno stato di sovrattivazione empaticaper cui si sperimenta sentimento di sofferenza personale. In altre parole, per effetto dell’empatia, si arriva a soffrire in prima persona per la condizione in cui si trova qualcun altro, come se si fosse direttamente coinvolti.

La sofferenza personale può essere così intensa e aversiva da spingere la persona ad adottare strategie difensive capaci di ridurne l’intensità, al prezzo di un distacco sempre maggiore nei confronti di chi soffre, come avviene nel burnout.

Tuttavia, quando una persona è molto empatica o ricopre un ruolo che la obbliga a prestare aiuto, la sovrattivazione empatica può produrre l’effetto opposto, intensificando l’impegno ad aiutare gli altri senza preoccuparsi dei propri bisogni. In questo caso, con la costante esposizione alla sofferenza degli altri, la sovrattivazione empatica diventa cronica e può esitare nella fatica da compassione.

 

Quali sono le conseguenze?

Chi sperimenta la fatica da compassione si sente generalmente esausto, sopraffatto dalle emozioni, non ha tempo da dedicare alla cura di se stesso e alla propria vita privata, avverte un senso di malessere costante e sperimenta una restrizione della sfera emotiva.

Il coinvolgimento con le persone o con gli animali di cui ci si prende cura è tale da determinare un continuo stato di tensione, allerta e preoccupazione; predominano emozioni quali la tristezza, l’ansia, il senso di colpa e la disperazione; le situazioni di sofferenza con cui si viene in contatto durante il lavoro occupano costantemente il pensiero e determinano disturbi del sonno, incubi notturni o frequenti flashback.

Ci si sente intorpiditi, irritabili, sopraffatti dal proprio lavoro e dalle richieste degli altri e si ha via via la sensazione di non essere in grado di farvi fronte e di non riuscire a prestare cure nel modo in cui si vorrebbe.

Si cerca di prendere distanza dai pensieri, dalle emozioni, dai luoghi, dai compiti e dalle persone che determinano il disagio, senza riuscirvi. Le relazioni e il lavoro diventano perciò sempre più difficili da gestire. Come nel burnout, si ha una compromissione della salute e della qualità del lavoro che si svolge, con ampie ripercussioni anche sulla vita privata.

 

Perché i medici veterinari sono una categoria vulnerabile?

Soprattutto nella pratica con gli animali da compagnia, sempre più spesso il veterinario non solo deve prendersi cura degli animali, ma è chiamato a gestire anche le richieste di aiuto e di sostegno da parte delle persone legate a quegli animali da un vincolo affettivo.

Nella clinica degli animali da compagnia, il professionista si confronta quotidianamente con un’ampia varietà di situazioni che sollecitano l’empatia e determinano la necessità di gestire le emozioni proprie e altrui, ad esempio:

  • la sofferenza e la morte degli animali;
  • il dolore o la rabbia dei proprietari;
  • la comunicazione di diagnosi gravi;
  • la necessità di trovare un compromesso tra le risorse economiche dei clienti e le cure che si possono offrire all’animale.

Inoltre, in Italia, il medico veterinario è l’unico professionista autorizzato a porre fine alla vita dei propri pazienti mediante eutanasia, una decisione che può avere un impatto emotivo importante e che pone sia il medico che il proprietario dell’animale di fronte a riflessioni di tipo etico e a valutazioni non sempre semplici relative alla qualità della vita.

La capacità di provare empatia e compassione verso la sofferenza, non solo degli animali ma anche dei loro proprietari, svolge un ruolo importante nella professione del veterinario, migliorando il rapporto con i clienti e la qualità delle cure offerte all’animale.

Queste emozioni possono però determinare degli effetti “collaterali”: poco a poco, il contatto con la sofferenza e la volontà di intervenire per ridurla possono consumare le risorse emotive, spirituali, fisiche e finanziarie del veterinario, fino ad esitare in quadri di burnout e di fatica da compassione.

 

Burnout e fatica da compassione: i fattori di rischio in medicina veterinaria

Oltre alla continua esposizione alla sofferenza, sono molti i fattori di rischio comuni ad altre professioni che si ritrovano nella pratica veterinaria:

  • l’avere a che fare con clienti “difficili” o inadempienti;
  • le ripercussioni della vita lavorativa su quella privata;
  • le difficoltà di comunicazione entro l’ambiente lavorativo;
  • l’eccessivo carico di lavoro e di responsabilità;
  • le aspettative elevate;
  • la mancanza di tempo;
  • la remunerazione non adeguata o la necessità di discutere e contrattare il proprio compenso.

Ci sono poi dei fattori più specifici, che caratterizzano soprattutto la pratica con gli animali da compagnia:

  • la percezione del proprio lavoro comevocazione”: molti medici veterinari vivono la professione in modo totalizzante, vedendo in essa la realizzazione di un obiettivo che spesso si erano posti già da bambini, motivati dalla prospettiva di prendersi cura degli altri;
  • la tendenza al perfezionismo: determina un maggior rischio di stress, in quanto il professionista non si limita a dare sempre il meglio di sé, ma nutre la convinzione irrazionale che tutto ciò che non produce un risultato perfetto rappresenti un fallimento e una sconfitta personale; il perfezionista è costantemente sottoposto al giudizio del proprio “inquisitore interno”, che pretende il raggiungimento di risultati impeccabili, oggettivamente impossibili da realizzare;
  • il genere femminile:  le donne sono predisposte a provare livelli di empatia più alti rispetto agli uomini e sono più esposte al rischio di burnout e di fatica da compassione. L’elevata percentuale di donne che intraprende la professione medico veterinaria è perciò un dato da tenere in considerazione nella valutazione dei rischi psicosociali.

 

Cosa si può fare?

La European Agency for Safety and Health at Work (EU-OSHA) e la European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions (Eurofound) suggeriscono tre livelli di intervento per la gestione dei rischi psicosociali sul lavoro:

1. La prevenzione primaria

Azioni volte a eliminare o ridurre alla fonte i rischi psicosociali, quali ad esempio consentire una maggiore autonomia nell’organizzazione del lavoro o aumentare la percezione di sostegno sociale sul lavoro garantendo la compresenza di più operatori.

2. La prevenzione secondaria

Azioni volte a modificare il modo in cui le persone reagiscono ai fattori di rischio, fornendogli strategie più efficaci per gestirli, ad esempio attraverso attività di formazione finalizzate allo sviluppo di capacità di comunicazione efficace o di gestione dello stress.

3. La prevenzione terziaria

Azioni di supporto alle persone che hanno sviluppato disagi e problematiche psicofisiche come risultato dei rischi psicosociali, ad esempio attraverso sportelli di consulenza e supporto psicologico e psichiatrico.

 

Prendersi cura di sé per contrastare il Burnout e la Fatica da Compassione

Ai fini della prevenzione dello sviluppo di condizioni di burnout e di fatica da compassione, risultano fondamentali le iniziative di prevenzione adottate a livello organizzativo, attraverso adeguate attività di  informazione rispetto ai rischi psicosociali professionali e di formazione in merito alle strategie di self care.

È fondamentale che il medico veterinario riesca a prendersi cura di sé in modo attivo, adottando un corretto stile di vita che consenta di preservare il benessere psicofisico e di raggiungere un buon equilibrio tra l’attività professionale e la vita privata. È quindi indispensabile mettersi in gioco nell’apprendimento di strategie che consentano una miglior gestione dello stress, delle emozioni e delle relazioni interpersonali.

Qualora questo non basti e si osservino sintomi riferibili allo stress lavoro-correlato, al burnout o alla fatica da compassione, è importante chiedere aiuto rivolgendosi allo psicologo, allo psicoterapeuta, allo psichiatra o al medico di base, che saprà indirizzare la persona verso il professionista più adatto.

Non è possibile prendersi cura degli altri senza prendersi cura di sé e bisogna sempre ricordare che chiedere aiuto è un segno di forza e non di debolezza.

 

BIBLIOGRAFIA

Fonti: Hoffman, 2000; Mitchener and Ogilvie, 2002; Hatch et al., 2011; Ayl, 2013; Eurofound, EU-OSHA, 2014.